Oreste Giletti, l’Adriano Olivetti di Ponzone

Oreste Giletti, l’Adriano Olivetti di Ponzone
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Di Ponzone, “super frazione” di Trivero, due aspetti colpiscono invariabilmente: la vitalità della comunità e il “marchio” Giletti che ricorre su edifici più o meno pubblici (inclusa la chiesa del Sacro Cuore), indicazioni stradali, insegne commerciali. Ponzone è un panno con la cimossa parlante che dice Giletti. In particolare si deve al commendator Oreste Giletti una tale identificazione che, a ragion veduta, non si può che riconoscere come virtuosa. E’ un modello già visto in altri contesti: un imprenditore che si impegna per la comunità in cui produce. Le modalità di attuazione possono essere varie, ma l’esito pratico appare per lo più analogo. In verità ciò che si osserva in concreto spesso cela il “progetto” che ha generato quelle realizzazioni. Di Oreste Giletti, infatti, è poco conosciuto il pensiero, l’interesse speculativo, l’attitudine all’analisi e alla sintesi in relazione alle problematiche sociali dei suoi tempi. Vale la pena, per chi ne ignorasse l’opera, di scoprire gli scritti dell’industriale ponzonese, di considerarne il senso, i pregi e anche i limiti, soprattutto per il sincronismo tra il lavoro intellettuale e tecnico dello stesso Giletti e quello, assai più noto, di Adriano Olivetti. Tanto a Ivrea quanto a Ponzone, dopo l’ultima guerra, si palesano le necessità, le opportunità e le possibilità di “cambiare le cose”. Nel 1945 Oreste Giletti pubblica “La casa ad ogni lavoratore” (la seconda edizione è del 1948 con prefazione di Federico Marconcini). Nello stesso anno Adriano Olivetti dà alle stampe “L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato socialista”, il manifesto della sua meccanica antropologica, civile, economica, politica e sociale. A prima vista molto in comune, a ben guardare più divergenze che somiglianze: Giletti è per l’impegno sociale, ma non è un socialista. Risposte diverse a domande simili. Anche Ponzone, come Ivrea, può essere considerato come un laboratorio sociale in un’epoca che aveva tutte le carte in regola per essere sperimentale, per illudere che il mondo sarebbe stato in qualsiasi caso migliore dopo ciò che era stato vissuto con il Fascismo e con la guerra. Ma la percezione dei problemi e della loro priorità è differente.

Nel 1959 Olivetti pubblica “Città dell’uomo”, il suo testamento spirituale dove il neo-umanesimo federal-collettivista si coniuga a livello quasi mistico con architettura e urbanistica. L’anno prima Giletti aveva dato alle stampe “Una pensione, una casa, un capitale per tutti i cittadini” (prefazione di Italo Mario Sacco). L’autore era immerso nella realtà proletaria e provinciale in cui viveva e di cui faceva parte. Forse per questo l’approccio non è filosofico, semmai aritmetico, statistico e pratico. La divergenza si accentua.

 

Oreste Giletti era nato a Trivero il 14 gennaio 1890, undici anni prima di Adriano Olivetti, dal commendator Anselmo (classe 1857, scomparso nel 1927), fondatore della azienda di famiglia. Più del padre interviene nel tessuto vivo di Ponzone e le “opere sociali” che tuttora connotano l’area urbana della frazione si devono a lui. Nel suo primo saggio Giletti propugna la proprietà privata della casa come presidio della dimensione che realizza al primo stadio tanto l’individuo quanto la famiglia. La casa come bisogno primario, fisico e morale. In Giletti non c’è “sovversione” e nemmeno parificazione, non ci sono tracce del fabianesimo che emerge dalle visioni di Olivetti. Per Olivetti era la fabbrica a doversi adattare agli uomini che la facevano funzionare e non il contrario. Per Giletti la questione non stava tanto nel rapporto tra lavoro e lavoratore, quanto piuttosto tra il lavoratore e la mercede ricevuta per il lavoro svolto. La prestazione dell’opera poteva anche essere qualificante di per sè, senza per forza portare i lavoratori alla partecipazione della guida e dei profitti dell’azienda come immaginava Olivetti. O poteva essere riqualificata con un’istruzione adeguata (Oreste Giletti era stato insignito della Medaglia d’Oro della Pubblica Istruzione nel 1924 per i suoi meriti nel settore, specialmente per quella scuola professionale operaia avviata per i suoi dipendenti all’interno dello stabilimento), ma il potenziale risiedeva nel salario e nella sua convertibilità in mattoni. Nel 1948 un vano edificato costava circa 300.000 lire. Ogni lavoratore percepiva in media 1.000 lire al giorno di stipendio (300.000 all’anno). “Autotassandosi” per il 5% al giorno (50 lire) e aggiungendo un uguale importo conferito dallo Stato e dalle imprese si riusciva a mettere insieme un capitale di 30.000 l’anno. Con un interesse del 3% (che rappresentava l’affitto medio rispetto alle retribuzioni) si poteva arrivare a possedere una casa di cinque vani in 30 anni. Giletti ragionava per “buoni casa” che pagati via via davano diritto a occupare l’abitazione in effettiva (com)proprietà fin da subito. L’immobile in fase di costruzione o di riscatto poteva essere permutato ed ereditato, ma non alienato. Tuttavia l’autore sottolineava l’inderogabilità dell’emanazione di leggi speciali e denunciava la lentezza burocratica dello Stato. Era quindi necessario regionalizzare il servizio, ossia creare istituti regionali dedicati.

 

I territori erano la vera risorsa di efficienza di quel sistema mutualistico. Oreste Giletti anticipa l’INA Case e il “Piano Fanfani”, anche nel principio di serialità costruttiva attuato dai progettisti di quella edilizia popolare per abbattere i costi. Al contrario di Olivetti, nel suo volumetto sulla casa Giletti non si occupa di cultura né di elevazione delle classi lavoratrici perché si pone come problema principale ed esclusivo da risolvere quello delle abitazioni. Garantendo una casa di proprietà si poteva raggiungere un equilibrio psicologico delle masse che avrebbe contribuito a mantenere anche l’ordine sociale e la tranquillità ideologica delle classi meno abbienti. Oreste Giletti citava gli architetti Vittorio Bini e Gio Ponti e delineava con le loro parole lo stato di una società che si avviava sconsideratamente verso il consumismo e non verso il superamento delle condizioni che la impoverivano: “Quando si dice che gli italiani spendono sette miliardi all’anno in tabacchi e vediamo che questa dannosa schiavitù è incoraggiata da una pubblicità (cioè da un’autorizzata propaganda), e quando consideriamo poi che la maggioranza della pubblicità sui giornali, sulle riviste, per le strade è prevalentemente dedicata a liquori, cosmetici e rossetti per quanto riguarda il corpo e a dive e a cineasti per quanto riguarda lo spirito, e infine è dedicata a medicinali correttivi delle condizioni nelle quali ci riduciamo con una vita impossibile, noi architetti, e non soltanto noi, vediamo la nostra appassionata propaganda per un bene fondamentale, la casa, la ‘casa per tutti’, rurali e cittadini, la casa felice, bella, civile, sufficiente, amata, illuminarsi di una luce sacrosanta. Qui si lavora per l’uomo, per la famiglia: là si opera conto l’uomo”. Edificare, concretizzare, solidificare... La società postmoderna del XX secolo ha perfezionato, al contrario di quanto desiderato da Oreste Giletti, la sua stessa fluidificazione. Instabile e liquida fin dalle sue particelle elementari, la civiltà occidentale contemporanea non ha più nella produzione e nel risparmio i suoi capisaldi rassicuranti, bensì l’angoscia della percezione di sè e la bulimia del consumo. Bauman docet. Italo Mario Sacco scriveva nel suo testo introduttivo: “Siamo ormai al termine dell’epoca individualistica e alle soglie di un nuovo orientamento sociale con tendenze opposte, permeate di ideali di comunanza pieni di vigore giovanile, anche se ancora incerti e disordinati”. Il lieto vaticinio non ha avuto esattamente gli esiti previsti...

 

Nel saggio sull’organizzazione del sistema pensionistico Giletti fondava il ragionamento ancora una volta sulla dialettica del lavoro non tanto come mezzo di crescita dell’anima, bensì come produttore di benessere giorno per giorno, e in prospettiva. Pianificare l’impiego dei contributi mensili poteva portare all’accumulo di capitali costantemente accresciuti da interessi discreti (4-5%) applicabili senza eccessivi rischi d’investimento (tassi oggi reperibili solo nella letteratura fantasy). Si trattava di cambiare criterio, ovvero di passare dal metodo “a ripartizione” (chi lavora paga la pensione a chi ha cessato l’attività) a quello “a capitalizzazione” (ognuno paga per sé con prelievi minimi mensili) fino al termine della vita lavorativa, dopo aver “ancorato i versamenti a beni reali e quindi non soggetti alle conseguenze delle svalutazioni monetarie” su appositi “conti individuali nominativi vincolati.” In tale configurazione riecheggia il mantra selliano: ogni operaio è un imprenditore in potenza. Ma si ritrova soprattutto qualcosa della “formula Losana” per la sottoscrizione dei libretti della neonata Cassa di Risparmio di Biella e del Circondario (1856) quando per esplicita disposizione del vescovo non era possibile svincolare i depositi prima di averli almeno raddoppiati, onde evitare che le somme disponibili, piccole o grandi che fossero, finissero subito dalle tasche degli operai a quelle degli osti. Per Giletti il passaggio da un sistema all’altro sarebbe stato graduale, indolore, quasi “a vasi comunicanti”, preservando lavoratori attivi, pensionandi e pensionati già effettivi. E non si mirava “solo” ad assicurare una pensione, ma anche, con la semplice conversione parziale di quei “fondi pensionistici” ante litteram in investimenti stabili nell’ambito edilizio, a prospettare una dignitosa sistemazione abitativa (secondo i principi già enunciati e richiamati negli studi del 1945-1948 sulla casa per tutti). Inoltre, una simile disponibilità finanziaria avrebbe permesso ai più audaci di accedere a un “azionariato dei lavoratori sempre con utilizzo parziale dei fondi accantonati sui conti individuali”. Oreste Giletti si aiutava con le tabelle: un lavoratore che avesse messo da parte 50 lire al giorno (considerando che ne percepiva più di mille), cioè 15.000 l’anno, in trent’anni di costante e onesto lavoro, e con gli interessi montanti al 5% a fare la loro parte, si sarebbe trovato con poco meno di un milione di lire, che non erano spiccioli. Sia Marconcini che Sacco nelle loro prefazioni esaltavano l’idealismo di Giletti, ma prendevano un po’ le distanze, prevedevano le critiche, ne suggerivano tra le righe la “ingenuità”, tipica dei sognatori, degli utopisti alla Olivetti. Ma come amava dire proprio Adriano Olivetti, “il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.

Danilo Craveia

Di Ponzone, “super frazione” di Trivero, due aspetti colpiscono invariabilmente: la vitalità della comunità e il “marchio” Giletti che ricorre su edifici più o meno pubblici (inclusa la chiesa del Sacro Cuore), indicazioni stradali, insegne commerciali. Ponzone è un panno con la cimossa parlante che dice Giletti. In particolare si deve al commendator Oreste Giletti una tale identificazione che, a ragion veduta, non si può che riconoscere come virtuosa. E’ un modello già visto in altri contesti: un imprenditore che si impegna per la comunità in cui produce. Le modalità di attuazione possono essere varie, ma l’esito pratico appare per lo più analogo. In verità ciò che si osserva in concreto spesso cela il “progetto” che ha generato quelle realizzazioni. Di Oreste Giletti, infatti, è poco conosciuto il pensiero, l’interesse speculativo, l’attitudine all’analisi e alla sintesi in relazione alle problematiche sociali dei suoi tempi. Vale la pena, per chi ne ignorasse l’opera, di scoprire gli scritti dell’industriale ponzonese, di considerarne il senso, i pregi e anche i limiti, soprattutto per il sincronismo tra il lavoro intellettuale e tecnico dello stesso Giletti e quello, assai più noto, di Adriano Olivetti. Tanto a Ivrea quanto a Ponzone, dopo l’ultima guerra, si palesano le necessità, le opportunità e le possibilità di “cambiare le cose”. Nel 1945 Oreste Giletti pubblica “La casa ad ogni lavoratore” (la seconda edizione è del 1948 con prefazione di Federico Marconcini). Nello stesso anno Adriano Olivetti dà alle stampe “L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato socialista”, il manifesto della sua meccanica antropologica, civile, economica, politica e sociale. A prima vista molto in comune, a ben guardare più divergenze che somiglianze: Giletti è per l’impegno sociale, ma non è un socialista. Risposte diverse a domande simili. Anche Ponzone, come Ivrea, può essere considerato come un laboratorio sociale in un’epoca che aveva tutte le carte in regola per essere sperimentale, per illudere che il mondo sarebbe stato in qualsiasi caso migliore dopo ciò che era stato vissuto con il Fascismo e con la guerra. Ma la percezione dei problemi e della loro priorità è differente.

Nel 1959 Olivetti pubblica “Città dell’uomo”, il suo testamento spirituale dove il neo-umanesimo federal-collettivista si coniuga a livello quasi mistico con architettura e urbanistica. L’anno prima Giletti aveva dato alle stampe “Una pensione, una casa, un capitale per tutti i cittadini” (prefazione di Italo Mario Sacco). L’autore era immerso nella realtà proletaria e provinciale in cui viveva e di cui faceva parte. Forse per questo l’approccio non è filosofico, semmai aritmetico, statistico e pratico. La divergenza si accentua.

 

Oreste Giletti era nato a Trivero il 14 gennaio 1890, undici anni prima di Adriano Olivetti, dal commendator Anselmo (classe 1857, scomparso nel 1927), fondatore della azienda di famiglia. Più del padre interviene nel tessuto vivo di Ponzone e le “opere sociali” che tuttora connotano l’area urbana della frazione si devono a lui. Nel suo primo saggio Giletti propugna la proprietà privata della casa come presidio della dimensione che realizza al primo stadio tanto l’individuo quanto la famiglia. La casa come bisogno primario, fisico e morale. In Giletti non c’è “sovversione” e nemmeno parificazione, non ci sono tracce del fabianesimo che emerge dalle visioni di Olivetti. Per Olivetti era la fabbrica a doversi adattare agli uomini che la facevano funzionare e non il contrario. Per Giletti la questione non stava tanto nel rapporto tra lavoro e lavoratore, quanto piuttosto tra il lavoratore e la mercede ricevuta per il lavoro svolto. La prestazione dell’opera poteva anche essere qualificante di per sè, senza per forza portare i lavoratori alla partecipazione della guida e dei profitti dell’azienda come immaginava Olivetti. O poteva essere riqualificata con un’istruzione adeguata (Oreste Giletti era stato insignito della Medaglia d’Oro della Pubblica Istruzione nel 1924 per i suoi meriti nel settore, specialmente per quella scuola professionale operaia avviata per i suoi dipendenti all’interno dello stabilimento), ma il potenziale risiedeva nel salario e nella sua convertibilità in mattoni. Nel 1948 un vano edificato costava circa 300.000 lire. Ogni lavoratore percepiva in media 1.000 lire al giorno di stipendio (300.000 all’anno). “Autotassandosi” per il 5% al giorno (50 lire) e aggiungendo un uguale importo conferito dallo Stato e dalle imprese si riusciva a mettere insieme un capitale di 30.000 l’anno. Con un interesse del 3% (che rappresentava l’affitto medio rispetto alle retribuzioni) si poteva arrivare a possedere una casa di cinque vani in 30 anni. Giletti ragionava per “buoni casa” che pagati via via davano diritto a occupare l’abitazione in effettiva (com)proprietà fin da subito. L’immobile in fase di costruzione o di riscatto poteva essere permutato ed ereditato, ma non alienato. Tuttavia l’autore sottolineava l’inderogabilità dell’emanazione di leggi speciali e denunciava la lentezza burocratica dello Stato. Era quindi necessario regionalizzare il servizio, ossia creare istituti regionali dedicati.

 

I territori erano la vera risorsa di efficienza di quel sistema mutualistico. Oreste Giletti anticipa l’INA Case e il “Piano Fanfani”, anche nel principio di serialità costruttiva attuato dai progettisti di quella edilizia popolare per abbattere i costi. Al contrario di Olivetti, nel suo volumetto sulla casa Giletti non si occupa di cultura né di elevazione delle classi lavoratrici perché si pone come problema principale ed esclusivo da risolvere quello delle abitazioni. Garantendo una casa di proprietà si poteva raggiungere un equilibrio psicologico delle masse che avrebbe contribuito a mantenere anche l’ordine sociale e la tranquillità ideologica delle classi meno abbienti. Oreste Giletti citava gli architetti Vittorio Bini e Gio Ponti e delineava con le loro parole lo stato di una società che si avviava sconsideratamente verso il consumismo e non verso il superamento delle condizioni che la impoverivano: “Quando si dice che gli italiani spendono sette miliardi all’anno in tabacchi e vediamo che questa dannosa schiavitù è incoraggiata da una pubblicità (cioè da un’autorizzata propaganda), e quando consideriamo poi che la maggioranza della pubblicità sui giornali, sulle riviste, per le strade è prevalentemente dedicata a liquori, cosmetici e rossetti per quanto riguarda il corpo e a dive e a cineasti per quanto riguarda lo spirito, e infine è dedicata a medicinali correttivi delle condizioni nelle quali ci riduciamo con una vita impossibile, noi architetti, e non soltanto noi, vediamo la nostra appassionata propaganda per un bene fondamentale, la casa, la ‘casa per tutti’, rurali e cittadini, la casa felice, bella, civile, sufficiente, amata, illuminarsi di una luce sacrosanta. Qui si lavora per l’uomo, per la famiglia: là si opera conto l’uomo”. Edificare, concretizzare, solidificare... La società postmoderna del XX secolo ha perfezionato, al contrario di quanto desiderato da Oreste Giletti, la sua stessa fluidificazione. Instabile e liquida fin dalle sue particelle elementari, la civiltà occidentale contemporanea non ha più nella produzione e nel risparmio i suoi capisaldi rassicuranti, bensì l’angoscia della percezione di sè e la bulimia del consumo. Bauman docet. Italo Mario Sacco scriveva nel suo testo introduttivo: “Siamo ormai al termine dell’epoca individualistica e alle soglie di un nuovo orientamento sociale con tendenze opposte, permeate di ideali di comunanza pieni di vigore giovanile, anche se ancora incerti e disordinati”. Il lieto vaticinio non ha avuto esattamente gli esiti previsti...

 

Nel saggio sull’organizzazione del sistema pensionistico Giletti fondava il ragionamento ancora una volta sulla dialettica del lavoro non tanto come mezzo di crescita dell’anima, bensì come produttore di benessere giorno per giorno, e in prospettiva. Pianificare l’impiego dei contributi mensili poteva portare all’accumulo di capitali costantemente accresciuti da interessi discreti (4-5%) applicabili senza eccessivi rischi d’investimento (tassi oggi reperibili solo nella letteratura fantasy). Si trattava di cambiare criterio, ovvero di passare dal metodo “a ripartizione” (chi lavora paga la pensione a chi ha cessato l’attività) a quello “a capitalizzazione” (ognuno paga per sé con prelievi minimi mensili) fino al termine della vita lavorativa, dopo aver “ancorato i versamenti a beni reali e quindi non soggetti alle conseguenze delle svalutazioni monetarie” su appositi “conti individuali nominativi vincolati.” In tale configurazione riecheggia il mantra selliano: ogni operaio è un imprenditore in potenza. Ma si ritrova soprattutto qualcosa della “formula Losana” per la sottoscrizione dei libretti della neonata Cassa di Risparmio di Biella e del Circondario (1856) quando per esplicita disposizione del vescovo non era possibile svincolare i depositi prima di averli almeno raddoppiati, onde evitare che le somme disponibili, piccole o grandi che fossero, finissero subito dalle tasche degli operai a quelle degli osti. Per Giletti il passaggio da un sistema all’altro sarebbe stato graduale, indolore, quasi “a vasi comunicanti”, preservando lavoratori attivi, pensionandi e pensionati già effettivi. E non si mirava “solo” ad assicurare una pensione, ma anche, con la semplice conversione parziale di quei “fondi pensionistici” ante litteram in investimenti stabili nell’ambito edilizio, a prospettare una dignitosa sistemazione abitativa (secondo i principi già enunciati e richiamati negli studi del 1945-1948 sulla casa per tutti). Inoltre, una simile disponibilità finanziaria avrebbe permesso ai più audaci di accedere a un “azionariato dei lavoratori sempre con utilizzo parziale dei fondi accantonati sui conti individuali”. Oreste Giletti si aiutava con le tabelle: un lavoratore che avesse messo da parte 50 lire al giorno (considerando che ne percepiva più di mille), cioè 15.000 l’anno, in trent’anni di costante e onesto lavoro, e con gli interessi montanti al 5% a fare la loro parte, si sarebbe trovato con poco meno di un milione di lire, che non erano spiccioli. Sia Marconcini che Sacco nelle loro prefazioni esaltavano l’idealismo di Giletti, ma prendevano un po’ le distanze, prevedevano le critiche, ne suggerivano tra le righe la “ingenuità”, tipica dei sognatori, degli utopisti alla Olivetti. Ma come amava dire proprio Adriano Olivetti, “il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.

Danilo Craveia

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